Fede
e giustizia:
paesaggio dopo una battaglia
L’esperienza
dei
gesuiti dell’Europa Orientale
Adam Żak SJ
1.
Rapporto fede e
giustizia nell'esperienza dei cristiani sotto il comunismo
Sembrerebbe
che dopo i grandi
dibattiti che hanno avuto luogo nella Chiesa e nella Compagnia nei
decenni
postconciliari, l’impegno sociale e l’apostolato sociale ricoprano la
stessa
area di significati. Quando si parla dell’impegno sociale dei credenti
in
Cristo e – a fortiori
– dei religiosi o delle religiose, non
si meraviglia più nessuno se questo concetto viene usato come sinonimo
dell'apostolato sociale. Inoltre, sembra comunemente accettato che
l'apostolato venga qualificato anche con l'aggettivo 'sociale'. S'è
diffusa
anche la convinzione che esista un nesso non estrinseco tra
l'apostolato sociale
e la giustizia sociale, al punto che quest'ultima è apparsa sempre più
chiaramente
tra le finalità dell'apostolato sociale. Contemporaneamente però,
almeno a
livello del linguaggio usato, l'impegno e l'apostolato sociale, proprio
a causa
della loro chiara associazione con la giustizia sociale, anche se non
vengono
contrapposti al concetto di caritas,
non
ricorrono ad esso per qualificarsi come cristiani e per distinguersi da
visioni
esplicitamente non cristiane d'impegno sociale. Infatti la concezione
dell'apostolato sociale, così come s'è formata negli ultimi decenni, è
stata
fortemente influenzata dalla riflessione sul rapporto tra l'annuncio
della fede
e l'impegno per la giustizia. Il punto di partenza di questa
riflessione non
era un'analisi astratta, ma l'esperienza storica dell'ingiustizia
sociale
vissuta da numerosi popoli di tradizione cristiana, specialmente in
America
Latina, che si presentava come una sfida per l'annuncio della fede nel
mondo
contemporaneo.
Mentre nell'esperienza
storica
dei cristiani dell'America Latina e poi nella riflessione teologica il
nesso
tra fede e giustizia è stato vissuto e pensato con grande naturalezza,
i
credenti dell'Europa Orientale governata dai comunisti hanno subìto un attacco senza precedenti sferrato alla
loro fede
sotto gli stendardi della giustizia. Bisogna comprendere che dietro
l'attacco
alla fede c'era un giudizio radicalmente negativo sulla religione in
genere, e
sul cristianesimo nella sua versione cattolica in particolare, come
forza
invincibilmente reazionaria, opposta al progresso e alla giustizia
sociale.
Per
i cristiani dei
paesi comunisti tutto il campo di significati espressi nel linguaggio
legato
alla problematica della giustizia sociale era occupato negativamente
dalla
propaganda marxista.
Perciò
i cristiani dell’Europa
Orientale non erano in grado di capire la facilità con cui i loro
fratelli e
sorelle nella fede si servissero degli strumenti concettuali marxisti
sia per
analizzare la realtà sia per concepire il ruolo della fede nella
realizzazione
di progetti di giustizia sociale ispirati dall’ideologia comunista.
Questa
ideologia ha infatti monopolizzato ogni discorso di giustizia sociale,
di
progresso e di sviluppo. L’introduzione della dittatura come forma di
governo è
stata ideologicamente giustificata con la lotta per la giustizia
sociale.
Questa esperienza traumatica ha condizionato parecchio la ricezione
della
discussione sul rapporto tra l’annunzio della fede e l’impegno per la
giustizia. I cristiani evitavano addirittura di parlare di “giustizia
sociale”
e preferivano usare altri concetti. Si parlava più volentieri di “amore
sociale”, di diritti umani, di soggettività dei singoli e dei popoli,
ecc.
Inoltre il pluridecennale isolamento e il
controllo
totale dello stato hanno impedito ai cristiani dell’Europa Orientale di
contribuire direttamente in maniera significativa al vivace dibattito
che si
svolgeva nel mondo libero su questi temi.
Per questo i documenti della
Chiesa che
smentivano il pregiudizio marxista secondo il quale la fede cristiana
sarebbe
per sua natura reazionaria, contraria al progresso ecc. venivano
accolti e
recepiti con particolare attenzione. Ne voglio menzionare in modo
particolare
alcuni che hanno trovato un'eco non indifferente. In primo luogo vanno
ricordati i documenti dell’era del Concilio Vaticano II, con
l’enciclica di
Giovanni XXIII Pacem in terris
(1963), la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis
humanae (1965), la costituzione
conciliare Gaudium et spes (1965).
Questi documenti, insieme all'enciclica Populorum
progressio
(1967) e la lettera apostolica Octogesima
adveniens (1971) di Paolo VI, offrivano
ai cristiani
dell'Europa Orientale gli strumenti di autocomprensione
della loro esperienza di chiesa che li aiutavano a vivere fieri della
loro fede
e a difenderla. Lo stesso tentativo di far affermare nelle società
dell'Europa
Centro-Orientale l'ateismo fu percepito come una grande ingiustizia, in
quanto
era legato alla sistematica violazione dei diritti dei credenti. In
questa
maniera la difesa della fede e la sua proclamazione divenne
spontaneamente
lotta per la giustizia. Dapprima si trattava di una lotta per i
diritti della
Chiesa che, sotto l'influsso dell'evento conciliare e della crescita
della
sensibilità delle società civili per i diritti umani, divenne lotta
per i
diritti dell'uomo e della società. La difesa della fede, e il solo
fatto di
continuare a professarla e a proclamarla, divenne il più significativo
contributo al ristabilimento di condizioni di elementare giustizia.
Se si considera questo
contesto generale,
si comprenderà bene anche la difficoltà sperimentata dai gesuiti
dell'Europa
Orientale, che maggioritariamente erano
esclusi dalle
accese discussioni degli anni '70, di ritrovarsi nel decreto quarto
della CG
XXXII. Questo non significa che ci fosse un'opposizione al decreto. Si
trattava
piuttosto di una diffusa sensazione che il decreto, e con esso la CG
XXXII, non
fossero "per noi". I gesuiti dell'Europa Orientale che hanno seguito
in qualche modo la CG XXXII si sono ritrovati piuttosto nei documenti
dei due
Sinodi Generali del 1971 e 1974 dedicati alla giustizia e
all'evangelizzazione
e, soprattutto, nei due documenti vaticani del 1984 e 1986 sulla
teologia della
liberazione indirizzati non a loro, ma all'America Latina. Solo dopo i
cambiamenti politici del 1989/90, grazie ad un coinvolgimento nel
dibattito che
ha portato al Congresso di Napoli 1997 ed alla formulazione del
documento Caratteristiche
dell’apostolato sociale della Compagnia del 1998, c'è stato un
certo
recupero della partecipazione alla ricerca dell'identità
dell'apostolato
sociale.
Subito dopo la caduta del
comunismo è
iniziata all'interno della Conferenza dei Provinciali dell'EOR(1) una
riflessione sui temi centrati sul rapporto tra fede e giustizia. Ecco
alcuni
esempi di temi approfonditi. L'incontro del 1990 è stato dedicato al
tema: Fede
e giustizia. Le sfide ai gesuiti dell’Europa dell’Est (cfr.
Promotio Iustitiae 48, 1991). Nel febbraio 1992 s'è discusso
abbondantemente il tema Le nostre priorità apostoliche alla luce
del Decreto
quarto. Nell'incontro del 1997 è stata approfondita la dimensione
sociale
di ogni apostolato gesuitico nel contesto della tendenza presente
nell'Assistenza di ridurre l'apostolato alla cura animarum.
Sin dal 1995 i Provinciali
dell'EOR hanno
attivamente promosso gli incontri dell'apostolato sociale
dell'Assistenza e
hanno nominato un coordinatore di questo settore nella persona del P. Robin Schweiger
(SVN). Dal 1996
si tengono regolari incontri di studio e di scambio dei gesuiti
interessati o
impegnati nell'apostolato sociale. Il settore dell'apostolato sociale è
l'unico
coordinato in maniera continuativa a livello dell'Assistenza. Ciò
indica che la
Compagnia nell'Europa Orientale realmente si sta sforzando per
affrontare le
sfide del processo di una trasformazione senza precedenti.
2.
Comprendere il kairos della
caduta del comunismo
Se da un lato è vero che nei
decenni del
socialismo reale per ragioni di censura è mancato un largo dibattito filosofico-teologico sul rapporto tra la fede e
la
giustizia, non si può non considerare il fatto che tale rapporto s'è
realizzato
come una congiunzione vissuta che tante volte è culminata nel martirio.
Per la nostra parte
dell'Europa vale in
particolare ciò che Giovanni Paolo II ha affermato nella sua lettera
apostolica
Tertio Millennio Adveniente,
che il secolo ventesimo era per i cristiani e per le chiese soprattutto
il
secolo del martirio. Questa testimonianza non deve essere dimenticata,
anzi
deve essere portata a conoscenza del mondo e deve portare frutto. I
martiri
sono la semente dei credenti. E non si tratta di ricordare il martirio
come una
sorta di esibizione della sofferenza subìta
per
cercare d'ottenere la compassione, bensì di far fruttificare
l'esperienza del
martirio, scoprendo come l'opera della grazia nella storia ripristina
la
giustizia in un modo sorprendente.
Teologicamente parlando, il
martirio dei
credenti di ambedue le tradizioni, orientale e occidentale, ripetutosi
innumerevoli volte, è il più importante contributo all'annunzio della
fede che
produce i frutti della giustizia. In quasi tutta la regione la fede
cristiana
progressivamente diventava una fonte inesauribile di forza per una
sempre più
consapevole resistenza all'ingiustizia. Con il tempo questa resistenza
che si
nutriva della Parola di Dio e della preghiera ha contribuito al crollo
del
comunismo. Perciò molti hanno vissuto la caduta del comunismo come un
evento
liberatorio, come una risposta di Dio al grido del suo popolo.
Se cerchiamo i punti di
riferimento per
interpretare teologicamente il crollo del comunismo, li troviamo nella
storia
d'Israele: la liberazione dalla schiavitù d'Egitto. La liturgia
romano-cattolica della veglia pasquale con le sue letture sul passaggio
d'Israele attraverso il Mar Rosso (Esodo 14, 15-30 con il susseguente
cantico
15, 1-7. 17-18) diventa – almeno nella
chiesa latina – quel punto di riferimento
nel quale tutta la recente storia può essere vissuta e interpretata
come storia
della salvezza. Questa elaborazione interpretativa in base alla
liturgia è
estremamente importante in quanto la vita sotto la dittatura è stata
segnata e
ferita dall'esperienza del male in molti modi. Sembrava –
e qui stava la forza della tentazione contro la fede – che il male avesse riportato la vittoria.
L'esperienza del male subìto continua a
esercitare la
sua forza e deve essere contrastata dall'esperienza della grazia. Il
comunismo
è finito, la tentazione di pensare alla vittoria del male in mezzo alla
confusione del tempo presente è rimasta. La vittoria sul male, vissuta
storicamente e interpretata teologicamente in chiave della liberazione
operata
da Dio, è molto importante per rafforzare la speranza. Ritornare
all'esperienza
del martirio è importante per scoprire l'opera della grazia nella
storia.
Nel confronto con il comunismo, il
cristianesimo ha svolto il suo ruolo attingendo alla sua stessa
sorgente, a ciò
che lo anima, che ne costituisce l'essenza: alla vittoria di Cristo sul
male.
Questo vuol dire che la forza dei cristiani non era la mera negazione
dell'ideologia imposta, presa in prestito da argomentazioni di qualche
corrente
culturale di pensiero o da qualche movimento politico anticomunista.
Nella
forza dei martiri s'è manifestata la forza originale della fede
cristiana. A
partire da questa forza, il cristianesimo ispirava la speranza,
rafforzava la
consapevolezza della dignità dell'uomo e dei diritti umani; ha
confutato il
carattere assoluto dell'ideologia comunista con argomenti; ha anche
assicurato
il senso d'appartenenza alla comunità di valori che costituiscono la
forza
unificatrice non soltanto del continente europeo. Il cristianesimo è
stato la
voce di chi era privato di elementari diritti, forza dei martiri e dei
confessori.
Esso ha difeso la libertà e la giustizia. Anzi, ha donato la libertà di
perdonare ai nemici, di rinunciare alla vendetta, di donare la propria
vita per
gli altri. E in questo senso operava la liberazione molto prima ancora
che i
prigionieri potessero uscire dall'arcipelago gulag. Lo faceva
dentro quell'arcipelago, come
testimonia lo straordinario
romanzo di Solzhenicyn Una giornata di
Ivan Denisovich.
Presentando questa riflessione, mi
preme di
sottolineare un'altra cosa che considero molto importante e che non
deve
essere dimenticata quando si guarda alle non poche difficoltà che i
cristiani
dell’Europa Orientale stanno vivendo dopo la caduta del comunismo. La
libertà
non rende felice nessuno automaticamente. Per molti la libertà può
essere una
parola vuota, perché invece del lavoro dà il passaporto, facendo di
gente
radicata mendicanti e vagabondi nel mondo. Non c'è alcun dubbio che,
nella
resistenza contro la pretesa totalitaria del comunismo, la fonte
principale di
forza non è stata la negazione dell’ingiustizia, ma la professione di
una fede
che libera. Ora la tentazione di non pochi è di pensare che la
negazione di
tutto ciò che rende la vita insicura, che delude nel funzionamento
della
democrazia, dell’economia di mercato sia il nostro compito più
importante. Da
questa tentazione non sono liberi nemmeno i gesuiti. Perciò anche ora,
sotto le
nuove condizioni, l’esperienza vissuta sotto il comunismo che la fede
non è una
forza negativa, “reazionaria”, ma è una forza salvifica, che infonde
speranza,
conserva tutta la sua validità. Questa esperienza rimane una sfida
permanente
per pensatori e artisti, teologi e pastori, per le comunità ecclesiali
e
religiose, per le riviste e per le facoltà. Il martirio dei nostri
fratelli e
sorelle nella fede ci pone come credenti di fronte ad un’esigenza
fondamentale:
far emergere la fede cristiana come forza positiva che non condanna ma
salva,
che non è voce di sventura ma di speranza, che aiuta a leggere l'opera
della
grazia in mezzo alla storia. In questo contesto s’iscrive anche il
compito
della Compagnia nei paesi appena usciti dal comunismo.
Come risponde la Compagnia a
questa sfida
nelle condizioni della società postcomunista
– pluralista, democratica, relativista, ecc.?
Una delle risposte che i gesuiti cercano di dare è l'apostolato sociale.
3.
Prospettive dell’apostolato
sociale nell’Europa Orientale
Come ho già menzionato
sopra, subito dopo
i cambiamenti politici l'apostolato sociale è stato introdotto
nell'agenda
della Conferenza dei Provinciali EOR. Al gruppo di riflessione e di
scambio
promosso dai Provinciali hanno partecipato nel corso degli anni
numerosi
gesuiti di tutte le province dell'EOR, contribuendo non solo allo
sviluppo
dell'apostolato sociale, ma anche al superamento di una certa
diffidenza dovuta
alla lunga separazione dei rispettivi sviluppi in Oriente e in
Occidente.
Vorrei sviluppare la mia riflessione intorno ad alcune domande.
Qual
è ora la comune
esperienza dei gesuiti nei paesi postcomunisti?
Verso la fine degli anni
'90, durante un
raduno dei Provinciali dell'EOR è stato constatato con molta franchezza
che ciò
che ci unisce non è più la passata esperienza del comunismo. Questo
vuol dire
che la sofferenza passata non è più un denominatore comune. Al
concentrarsi sul
passato sotto il regime comunista, è subentrata l'apertura verso il
futuro.
Abbiamo scoperto che i problemi con cui si confronta la nostra missione
nei
paese postcomunisti diventano sempre più
simili a
quelli che la Compagnia sta affrontando in altre parti del mondo. Molto
prima
che nel 2005 le Conferenze dei Provinciali dell'ECE e dell'EOR avessero
deciso
di unirsi in una sola conferenza, mentre nei comuni incontri di lavoro
si
discutevano i problemi legati alla secolarizzazione, la formazione e
simili, la
constatazione era sempre la stessa: i gesuiti dell'Ovest e dell'Est si
trovavano sulla stessa barca e dovevano affrontare problemi molto
simili.
Ancora durante la CG XXXIV nessuno dei delegati delle due assistenze
aveva
immaginato uno sviluppo di questo genere. Gli orizzonti dell'esperienza
passata
sembravano così distanti che si pensava ad un eventuale avvicinamento
in tempi
piuttosto lunghi.
Mentre questa constatazione
vale
certamente per i gesuiti, non si può dire che lo stesso processo sia
stato così
veloce in altri segmenti delle nostre società e chiese da produrre una
simile
percezione di navigare nella stessa barca. Per questo uno dei
principali
compiti dei gesuiti nelle province dell'EOR è quello d'aiutare le
chiese e i
non pochi gruppi sociali ad abbandonare la mentalità di vittime e di
scoprire
la comunanza delle sfide da affrontare in una prospettiva di speranza e
non di
fatalismo. Dal punto di vista cristiano la storia, benché in maniera
misteriosa, è sempre storia di salvezza. Anche il periodo del
comunismo, che ha
causato tante sofferenze, appartiene al disegno di Dio. La stessa
caduta del
comunismo si presta ad una non forzata lettura teologica in chiave
pasquale
come un evento di liberazione che è dono da accogliere e da far
fruttificare
per il futuro. Questa lettura, chiudendo un negativo concentrarsi sul
passato,
che trova il suo prolungamento in una visione fatalista del presente e
del
futuro, apre alla grazia operante nella storia, apre ad una prospettiva
di
speranza, al futuro preparato da Dio, Signore della storia. Anche il
gesuita
nel mondo postcomunista è sereno e grato
testimone di
un Dio che libera!
Qual
è il compito
principale dell’apostolato sociale dei gesuiti nei paesi postcomunisti?
Prima di passare ad un
tentativo di
risposta, vorrei dedicare qualche parola alla distinzione tra la
dimensione
sociale di ogni settore apostolico e l'apostolato propriamente sociale
realizzato da opere a carattere sociale. Il settore sociale nelle
province
dell'Europa postcomunista esiste e assume
svariate
forme nei singoli paesi, ma – come è
comprensibile – è un settore ancora
piuttosto debole. Anche la dimensione sociale dei vari apostolati è
evidentemente suscettibile di crescita. Perciò è molto importante che i
gesuiti
operanti nel settore sociale e negli altri settori apostolici si
rendano conto
che in fondo c'è un compito che unisce tutti i settori e qualifica
chiaramente
la dimensione sociale.
Di che cosa di tanto
importante ha bisogno
la gente nei paesi postcomunisti,
indipendentemente
se partecipa a un seminario di studio, agli esercizi spirituali, se
frequenta
una scuola gesuita o riceve i sacramenti? Che cosa noi, come compagni
di Gesù,
possiamo e dobbiamo impiantare in mezzo alla gente?
È la mia più profonda
convinzione, che si
rafforza con ogni viaggio nei paesi dove vivono e lavorano i gesuiti,
che il
più urgente bisogno nei paesi postcomunisti
e il più
genuino compito del nostro apostolato è la riconciliazione. Infatti i
maggiori
problemi sono dovuti al fatto che viviamo in mezzo alle conseguenze di
tragici
e profondi conflitti e divisioni tra singoli, gruppi sociali,
confessioni
religiose e nazioni. Questi conflitti e divisioni fanno parte
dell'eredità storica
della regione. Il comunismo ne ha decretato la fine, li ha repressi, ma
non li
ha risolti. Anzi ne ha creati di nuovi. Un esempio evidente di questo
stato di
cose è stata la guerra in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia.
Ce ne
sono però altri esempi, in cui si manifesta forte lo stesso bisogno di
riconciliazione. Ne racconto uno. Sono stato in Romania nel giorno in
cui
questo paese è entrato nella NATO. Sono stato destinatario di uno
spontaneo
commento fatto da un vescovo romeno, evidentemente contento per
l'evento
politico che si festeggiava nel paese con un giorno di festa. "Questo è
un
giorno molto importante – ha detto il
vescovo – se non per altri motivi, almeno
per uno: da questo giorno la guerra con l'Ungheria diventa meno
probabile".
Se da un lato questo
commento mostra le
ferite presenti in questa parte dell'Europa, dall'altro esso indica un
bisogno
profondo che va oltre l'importante significato politico
dell'improbabilità
della guerra. Ora devono essere guarite anche le ferite. Non lo farà il
libero
mercato, non lo faranno le comuni esercitazioni delle forze armate.
Occorre
lavorare per la riconciliazione. E questo è il compito squisitamente
religioso,
con un fondamento cristologico che non c'è
bisogno di
sviluppare qui. È un compito di tutti coloro che si definiscono
"servitori
della missione di Cristo", indipendentemente se in un centro sociale
propongono ai giovani un seminario sulla democrazia, se accompagnano
gli
esercitanti in cerca della pace con Dio, con se stessi e con gli altri,
se
predicano e confessano o se collaborano ad un progetto di reinsediamento
dei profughi di guerra.
Nelle società dei nostri paesi per
decenni
si applicava la dialettica secondo cui la lotta era il motore del
progresso
della storia. Per questo la gente nei nostri paesi è veloce nel
definire e indicare
i nemici da combattere. Dovremmo essere altrettanto veloci con l'opera
della
riconciliazione, con iniziative di dialogo sociale, con la creazione di
spazi
d'incontro e di dialogo con i nemici. La riconciliazione guarisce le
ferite, ma
crea anche fondamento per un futuro differente.
L'opera della riconciliazione deve
misurarsi evangelicamente, ma anche
scaltramente con
un'eredità complessa. Non si tratta solo di inimicizie, di
nazionalismi, di
conseguenze di un'arretratezza economica e tecnologica, ma anche di una
passività che troppo attende dalle istituzioni pubbliche e statali e
contemporaneamente è troppo diffidente per partecipare attivamente alla
società
civile non solo per proteggersi, ma anche per organizzarsi per qualcosa
di
costruttivo. Certamente, ci sono non poche differenze tra i singoli
paesi
dovute a differenti esperienze storiche. Tendenzialmente però, il
numero di
coloro che non hanno potuto e/o saputo reagire costruttivamente ai
cambiamenti
è abbastanza elevato in tutte le società postcomuniste.
Perciò cresce il divario tra queste "masse" passive e deluse e i
circoli culturali, politici ed economici che sono fortemente tentati di
approfittare egoisticamente della situazione, accumulando benessere e
il
potere. Di questo divario approfitta il populismo che, invece di
sprigionare le
energie in maniera creativa, di fatto sta perpetrando l'ingiustizia.
Purtroppo
ci sono forme di populismo giustificate con pseudoargomenti
demagogici che attingono alla religione, alle mitologie nazionali o si
servono
della idealizzazione del passato comunista. Questa immagine un po'
semplificata
fa però intuire l'importanza dell'istruzione, dell'associazionismo e di
altre
forme dell'educazione sociale nella costruzione dei ponti e nel
superamento
delle divisioni. L'opera della riconciliazione ha bisogno del supporto
di tante
iniziative concrete per dare visibilità e stabilità alla speranza di
giustizia.
Non siamo soli a servire la fede
che fa
giustizia. Fortunatamente l'apostolato sociale si fa in tante forme.
Siamo
soprattutto chiamati a collaborare, imparando da coloro che vogliamo
aiutare.
L'apostolato sociale della Compagnia è ben poca cosa rispetto ai
bisogni e alle
sfide. Occorre rinunciare ad ogni forma di presunzione per seminare la
speranza
in mezzo alla gente.
Adam
Żak SJ
Curia
Generalizia
C.P.
6139
00195
Roma-Prati – ITALIA
1) EOR è composta
di una
Regione indipendente (RUS) e di 7 province. Benché le province LIT e
HUN non
appartengano all’EOR, esse condividono la stessa storia ed esperienza e
quindi
sono da tenere presenti quando si pensa alla Compagnia in Europa
Orientale. Nei
decenni del comunismo la Regione Russa non esisteva affatto, benché
nell’Unione
Sovietica ci fossero dei gesuiti e una formazione clandestina. Le
province di
Boemia, Slovacchia e di Romania (come anche quelle di Lituania-Lettonia
e d’Ungheria) erano costrette alla clandestinità e all’emigrazione. La
Romania
è riemersa in superficie nel 1990 con soli 7 o 8 membri! Solo 4
province - PMA,
PME, CRO e SVN - benché fortemente limitate nell’apostolato
continuavano ad
esistere visibilmente.